Enrico Zucchi

Sul modulo dell’iterazione nei “Canto orfici” di Campana
Ipotesi teoriche e sondaggi stilistici

         La bibliografia campaniana, ricca sin dalla prima metà del Novecento, si è andata col tempo sempre più ampliando, tanto che tentare di farne un'analisi completa pare oggi proibitivo (1). L'interesse della critica si è volto in un primo tempo a ricostruire la vita raminga del poeta e il rapporto che, nei suoi scritti, intercorreva tra vita e poesia; successivamente si è tentato di ricostruire la formazione culturale di Campana e di definire la rete di relazioni che la sua poesia intesseva con gti antecedenti italiani ed europei (2). Solo più tardi la poesia di Campana è stata presa in considerazione anche da un punto di vista stilistico: Felicita Audisio notò in un suo saggio che, se «della cultura di Campana sono state ampiamente sondate e illustrate le fonti (...), allo stile della sua poesia invece è stato.riservato minor spazio (...) e nulla o quasi è stato concesso aI fattore ritmo» (3).

            In seguito a questo intervento un cospicuo numero di contributi ha indagato il ritmo e la retorica campaniana (4). Felicita Audisio indagava prevalentemente la forma in cui, nelle prose liriche e nelle poesie dei Canti orfici, compariva uno dei moduli caratteristici dello stile di Campana, l'iterazione. Quasi tutti i maggiori interpreti di Campana avevano, in precedenza, sfiorato l'analisi di tale figura che tuttavia veniva per lo più considerata il simbolo di una «scarsissima apparecchiatura retorica»(5) all'interno di una concezione critica che insisteva sull'«orfismo» campaniano, cercando di far emergere l'esoterismo dei Canti, piuttosto che tentare di comprendere e descrivere i modi della scrittura poetica. L'avvalorare ora la tesi «visiva» di Contini, ora quella «visionaria»(6) di Bo, pare avere in un certo senso distolto la critica dall'analisi dei procedimenti
stilistici della poesia campaniana.

In questa sede si tenterà di interrogare la tradizione critica seguendo una triplice via: innanzitutto quella dell'analisi del valore della ripetizionel, quindi quella dell'indagine sulla forma che essa assume; infine quella, meno studiata, della riflessione teorica, sia sulla forma che sulla funzione dell'iterazione.

Il settore della critica che, con una certa semplificazione, potremmo definire «orfico», si è concentrato principalmente sulla funzione rivestita dall'iterazione. Questa, in quella visione, rimandava alla concezione orfica del tempo circolare e dell'«eterno ritorno» nietzschiano. Nella poesia di Campana fu individuata una scissione tra due piani: quello «spazio-temporale» da una parte, quello «metafisico-irrazionale» (7) dall'altra. Si tentò di contestualizzare Campana ponendolo all'interno di un mito tardo-ottocentesco del vagheggiamento di una realtà altra, in alcuni casi allucinata, rigenerabile soltanto attraverso un ritorno alla purezza originaria. Da allora Campana venne avvicinato alla corrente simbolista e irrazionalista dell'Europa di fine Ottocento (Rimbaud, Baudelaire, Nietzsche, Merezkovskj, ecc,) (8). Le fonti europee furono poi connesse a
quelle italiane (D'Annunzio, Pascoli, Carducci e i crepuscolari (9), riuscendo così ad evitare iI rischio derivante dal fatto che «studiando Campana come un isolato, si perpetua I'errore di spiegare Campana con Campana» (10).

La critica «orfica»», ricostruendo il contesto storico-culturale all'interno del quale i Canti Orftci si inserivano, associò la ripetizione campaniana alle formule dello Zarathustra o al Leitmotiv wagneriano: la sua funzione sarebbe quella di legare insieme i diversi momenti della prosa attraverso motivi ricorrenti. La ripetizione fu interpretata come momento rituale di un'oscura liturgia che, nella mancanza di significazione, trovava la possibilità di evocare un'altra realtà lontana. Secondo Bigongiari «le iterazioni non sono altro che il fondersi nella memoria orfica di ogni ordine razionale», dal momento che apparterrebbero «ad un programma di irrazionalizzazione, owero di riconoscimento dell'irrazionalità della ragione»(11). Galimberti notava che in Campana «il Leitmotiv tende a diventare, al contrario di Wagner, sempre più privo di significanza, fino a diventare, in Piazza Sarzano, ritorno di sillabe»(12). Per restituire Campana all'epoca a cui appartenne ci si  risolse ad analizzare il dato stilistico come una conferma della contestualizzazione storica. Campana, attraverso l’iterazione, avrebbe mostrato, in sostanza, di aderire al sistema culturale che aveva abbracciato e, al contempo, la propria specificità in quel contesto: la mancanza di significazione sarebbe una dichiarazione di resa, di straniamento, di incomprensione del mondo. Quest'ultimo assunto è stato, peraltro, capovolto in un interessante saggio di Luzi, il quale vede in Campana il poeta che ha «prospettato il dramma dell'umano nel pieno della reciprocità con il mondo»: i Canti Orfici «non lasciano per il poeta un a parte, una possibilità di ritrazione davanti all'evento: aboliscono la condanna e il privilegio dell'esclusione, della non complicità e della riserva»(13)

Tutti questi interventi propongono spunti suggestivi e fondati. Tuttavia, riconducendo l'iterazione all'eredità di un retroterra culturale, ci si priva della possibilità di indagare la produzione di senso nella dimensione del ritmo, - non a caso questi critici parlano spesso di «a-semanticità» - e si rinuncia ad interessarsi delle forme in cui il fenomeno appare. Si parla così di iterazione, senza verificare l'esistenza di più tipi, di più forme dell'iterazione. Si riporta ogni singola ripetizione all'unico significato proprio dell'iterazione: quello di enfatizzare il tessuto melodico e di non significare. Insomma, il limite che in questo metodo ci sembra di riscontrare sta proprio nella mancata ricognizione delle forme della ripetizione. Prescindendo dall'analisi delle stesse, o meglio, riconducendole tutte ad un unico archetipo, si utilizza un criterio «nomotetico»» che risolve ogni singola forma iterativa in una "ripetizione di ripetizione". In questo modo lo stile viene però piegato ad un disegno storico-letterario.

Considerando il gruppo opposto, quello dei critici «visivi», che si richiamavano all'intervento di Contini e al sostanziale ridimensionamento di Campana, non si trovano risposte più soddisfacenti. Per Bàrberi Squarotti  la ripetizione serve ad «immettere durata laddove c'è puntualità» (14).  La poesia di Campana sarebbe «la definizione stilistica di uno stato di incomprensione delle cose che già in Pascoli appare pienamente  delineata».  Se le conclusioni sono opposte rispetto a quelle tratte dalla critica «orfica»»,  le premesse dei due ragionamenti sembrano significativamente concordi nel considerare l'iterazione come parte di un programma di irrazionahzzazione: la ripetizione anche per Bàrberi Squarotti «non porta avanti l'apprensione
del reale, ma lo allontana in una serie di segni uguali».

Come si anticipava in apertura, l'articolo di Felicita Audisio inaugura un nuovo impegno della critica, teso ad analizzare le forme in cui l'iterazione si presenta. La Audisio distingue innanzitutto iterazione «a distanza» e iterazione «contigua»). La prima forma già propria dell'ambiente vociano, si manifesta nella Ringcomposition (Pampa), nella ripresa del segmento iniziale o dell'endecasillabo finale di un poemetto (iI «panorama scheletrico del mondo» nella Notte), nell'aggancio tra diverse lasse, e infine nel Leitmotiv,  la ripresa a distanza. La seconda, che costituisce una «peculiarità tutta  campaniana», ripropone «a distanza ravvicinata, per geminazione, lo stesso  segmento ritmico, alla cui funzione modulare sembra sia affidata la musicalità
della poesia» (15). Passando all'interpretazione della loro funzione, la Audisio  non si distacca troppo dalle riflessioni critiche precedenti: nei poemi in prosa  «la ripetizione non comporta incremento di immagine, né intensificazione  icastica, ma solo un prolungamento ritmico, a scopo musicale»; nelle poesie «l'ossessione ritmica porta Campana a scatenare una furia di identiche sequenze nel corpo del medesimo componimento».

            Pur sottolineando l'aspetto musicale, anziché quello irrazionalistico, viene condiviso l'assunto della critica «orfica»», dal momento che la natura delle varianti introdotte nei Canti Orfici rispetto ai taccuini e ai quaderni precedenti  «non è mai semantica, anzi è perdita di semanticità per acquisto di musicatità»(16). Certo nel passaggio da Il più lungo giorno ai Canti Orfici, come notò già Bonifazi, si infittisce notevolmente il «balbettio sintattico» (17), la rete di ripetizioni, di allitterazioni, di richiami infratestuali, di rime interne.

È però da verificare la tenuta dell'equazione esplicitata dalla Audisio per cui all'acquisto di musicalità corrisponderebbe una perdita di semanticità. Le possibilità di analisi sono due: o si intende per semantico tutto ciò che significa, e in questo caso non è vero che l'acquisto di musicatità non significhi; oppure si distingue tra valore semantico e valore di senso,indicando  col primo il significato letterale, conservato ab origine da un determinato significante, e col secondo invece il significato ottenuto dal complesso di procedimenti formali e di dati contenutistici, e allora, alla perdita di semanticità corrisponderebbe con l'acquisto di musicalità un acquisto di senso, non rilevato però dalla critica. Per evitare confusioni terminologiche noi useremo il termine semantico nella prima accezione proposta, e ciò che più avanti proveremo a fare sarà di evidenziare proprio l'incremento di semanticità che questo acquisto di musicalità comporta.

Nel lavoro della Audisio ci sono almeno due notevoli intuizioni: innanzitutto l'iterazione viene studiata in rapporto ad un insieme di altri strumenti testuali che partecipano della ripetizione come «la serie di endecasillabi in prevalenza anapestici» di Genova che «ribattono d'accento sulla stessa sede (3° 6° 10°)» (18);  in secondo luogo, si awerte che «la ripetizione obbligata» è la strategia formale  sottesa all'elaborazione degli Orfici. Una simile considerazione impone la necessità di comprendere da un punto di vista teorico quale ruolo l'iterazione svolga all'interno della poesia campaniana, ma generalmente otto-novecentesca.

Nella seconda metà dell'Ottocento, si afferma, in Francia e poi in tutta Europa, il poème en prose, il quale segna l'ultima fase di un percorso, iniziato nel tardo Settecento, che ha portato alla progressiva perdita di centralità delle strutture poetiche tradizionali. Le strutture canoniche furono ripensate nel tentativo di trovare una nuova musicalità, uno spazio ulteriore  in grado di ospitare un pensiero che risultava oppresso entro i limiti consueti:  la canzone leopardiana è un significativo esempio di questa tendenza. L'esigenza  di cambiamento investe poi il verso stesso: nascono così il verso libero e ,appunto,  il poème en prose, nella cui fusione tra prosa e poesia, quanto rimane della prosa è ciò che potremmo chiamare la struttura - l'impostazione orizzontale, anziché quella verticale del testo -; ciò che rimane della poesia è, invece, la forma intesa come tessuto nel quale il significante significa anche di per sé.

Roman Jakobson scriveva che la «funzione poetica proietta il principio d'equivalenza dall'asse della selezione all'asse della combinazione (...). In poesia ogni sillaba è messa in rapporto d'equivalenza con tutte le altre siltabe delta stessa sequenza»(19). Net suo discorso si rifaceva a Hopkins, secondo il quale«il verso è come un discorso che ripete totalmente o parzialmente la stessa figura fonica»(20). Per Jakobson ciò che costituisce la letteratura è il parallelismo, presente sia nella poesia, come «parallelismo continuo» - risolto principalmente nella figura chiave della rima -, sia nella prosa, sebbene con minore frequenza e regolarità(21). Sulla scorta di queste affermazioni si arriverebbe a dire che in un poemetto in prosa, struttura di intersezione, alla mancanza della rima dovrebbe supplire la costruzione di una fitta rete di parallelismi. Una simile asserzione non si deve ritenere, a priori, scorretta. Nel poème en prose l'iterazione è infatti un modulo ricorrente, come si evince da una rapida rassegna di esempi tratti dalle Illuminations di Rimbaud :(22)

Le sang coula, chez Barbe-Bleu, - aux abattoirs - dans le cinque, où le sceau de
Dieu blêmit les fenètres. Le sang et le lait coulèrent. (Après le déluge, p. 253)

Au bois il y a un oiseau, son chant vous arête et vous fait rougir.
Il y a un horologe qui ne sonne pas.
Il y a une fondrière avec un nid de bètes blanches.
Il y a une cathédrale qui descend et un lac qui monte. (Enfance III, p.256)
Je suis le saint, en prière sur la terrasse, - comme les bêtes pacifiques paissent
jusqu'à la mer de Palestine.
Je suis le savant au fauteuil somber. Les branches et Ia pluie se jettent à Ia
croisée de Ia bibliothèque.
Je suis le pièton de la grand'route par Ie bois nains. (Enfance IV, p.257)

            Nel primo esempio la ripetizione serve da Leitmotiv; nel secondo e nel terzo fonda, con una tecnica ricorrente, il meccanismo retorico su cui è plasmato il discorso. Si può considerare propaggine dell'iterazione anche la ricorsività lessicale da un poemetto all'altro: nelle Illuminations assisteremo allora  all'iterazione di corps, brahamane, vue e molti altritermini. Pure la rima interna, altra forma di ripetizione, non è esclusa dalle Illuminotions:

Cette promesse, cette dèmence! L'elegance, la science, la violence! (Mattinée d'ivresses, p.269).

            Anche nei Canti Orfici troviamo, accresciute ed enfatizzate, tecniche di questo tipo. L'iterazione in Rimbaud, in Campana e in altri autori di poemetti in prosa sarebbe, secondo questa logica, un tentativo di riportare in una prosa poetica l'alto grado di parallelismo che caratterizza la poesia in versi.

L'ipotesi di Jakobson, il quale riporta la letterarietà ad una «differenza specifica», consistente nella «reiterazione regolare d'unità equivalente», rivela tuttavia una intrinseca debolezza; da qui la sua difficoltà nel giustificare la poeticità del verso libero (23) all'interno della propria teoria. Se è vero che la poesia è fatta di parallelismi, è altrettanto vero che essa è costituita allo stesso modo di discontinuità, di asimmetrie. In virtù di questo, ai parallelismi sopra indicati Rimbaud affianca l'introduzione di differenze minime: coppie di termini o di enunciati che si avvicinano anche notevolmente dal punto di vista fonetico per poi allontanarsi quel tanto che basta a sancire una sorta di «atto mancato»» della ripetizione:

Cette idole, yeux noir et crin jaune, sans parents ni cour, plus noble que la fable,
mexicaine et flamande; son domaine, azur et verdure insolents, court sur des
plages nommèes, par des vagues sans vaisseauz, de noms férocement grecs,
slaves celtiques. (...) Quel ennui, l'heure du cher corps  et  cher coeur
(Enfancer I, p.255)

C'est l'ami ni ardent ni faible. L'ami.
C'est l'aimèe ni tourmentante ni tourmentèe. L'aimee. (Veillées,p. 281)

Ta tète se détourne: le nouvel amour! Ta tète se rétourne, - le nouvel amour.
(A une raison, p. 268)

            Per trovare allora un approccio più soddisfacente al problema dell'iterazione nella poesia di Campana, si consideri il lavoro di uno studioso italiano, Stefano Agosti, il quale, analizzando sulla scorta di un importante saggio lacaniano(24) i «messaggi formali» della poesia, riconosce due tipi di rapporti possibili tra le parole: uno «sinonimico», in cui la differenza lessematica diventa affinità di senso; un altro «omonimico»», per cui le equivalenze foniche non implicano, come invece ritiene Jakobson, equivalenze semantiche: le omonimie sono «complessi di senso caratterizzati da differenze» (25). Questa visione restituisce al parallelismo la proprietà della non-coincidenza, quella che caratterizza ogni discorso poetico, e che non era contemplata nella teoria di Jakobson. Soltanto così possiamo considerare in maniera attenta e non parziale la tecnica della ripetizione. Si prenda, ora, una piccola porzione di testo del Crepuscolo Mediterraneo di Campana:

Un bizzarro palazzo settecentesco sporge all'angolo di una via, signorile e fatuo,
fatuo della sua antica nobiltà mediterranea.

In questo segmento si può notare una forma catalogabile, secondo la nomenclatura della Audisio, tra le iterazioni «contigue>» («fatuo, fatuo». È difficile credere che questa iterazione si risolva in un acquisto di musicalità, non solo perché non si collega con altri elementi fonici, ma perché non si trova  in una zona di musicalità diffusa, bensì in un contesto altamente iterativo e di notevole ricorsività lessicale.

Se questa iterazione fosse «razionalmente semantica»» essa acuirebbe il carattere vanesio della costruzione. Il carattere semantico dell'iterazione in questo caso pare piuttosto prodursi nello iato esistente tra la tecnica dell'iterazione e il termine iterato: se, come suggeriva Bàrberi Squarotti, Campana tenterebbe di «immettere durata laddove c'è puntualità», andrebbe notato come la parola a cui si affiderebbe il compito di «immettere durata» è  fatuo, un aggettivo che indica vanità, inconsistenza. Neppure considerando l'iterazione un «tentativo di statizzazione del divenire»(26) questa netta separazione scomparirebbe: neppure una «statizzazione» potrebbe pacificamente reggersi su un vocabolo come fatuo. Davanti a questo fatuo sembra di poter dire che il problema dell'iterazione non potrà essere affrontato in modo esaustivo se si continuerà ad ancorarlo ad una dimensione temporale - di durata o statizzazione.

Altri testi dei Canti Orfici presentano analoghi nodi: la situazione Rilevata in precedenza non è un unicum,bensì un modulo ricorrente. Le ripetizioni, infatti coinvolgono anche altri termini indicanti inconsistenza, come per esempio fantasmi, spettri, spiriti, tenebra, incubo, sogno.

Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto
battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d'oro, nel mentre à l'ombra dei
lampioni verdi nell'arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di
marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea? (Crepuscolo
Mediterraneo)
Gli uomini come spettri vaganti: vagavano come gli spettri (Notte)

La luce del crepuscolo si attenua:
inquieti spiriti sia dolce la tenebra
al cuore che non ama più!
Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,
sorgenti, sorgenti che sanno
sorgenti che sanno che spiriti stanno
che spiriti stanno ad ascoltare...
Ascolta: la luce del crepuscolo attenua
Ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra. (Il canto della tenebra)

Campigno: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del caos.
(...) Paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del Caos.
(La Verna)

E noi ancora stanchi del sogno vagabondare a caso per quartieri ignoti fino a
stenderci sul letto di una taverna lontana (...). E così lontane da voi passavano
quelle ore di sogno, ore di profondità mistiche e sensuali (Dualismo)

Passeggio sotto l'incubo dei portici. Una goccia di luce sanguigna, poi l'ombra,
poi una goccia di luce sanguigna, la dolcezza dei seppelliti. Scompaio in un vicolo
ma dall'ombra sotto un lampione s'imbianca un'ombra che ha le labbra tinte.
(Giornata di un nevrastenico)

Il cielo come la terra in alto, misterioso, puro, deserto dall'ombra, infinito. Mi
ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e
misteriosa, dalla sua tenda l'uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non
deturpato dall'ombra di Nessun Dio. (Pampa)


            Per sondare la validità di questa analisi e capire se sia davvero possibile avanzare l'ipotesi di una iterazione «non temporale»» e non «a-semantica»», sarà bene soffermarsi non più su citazioni sparse, ma su un testo nella sua integrità.  Si prenda in considerazione La chimera che, oltre ad essere uno dei più celebri Canti Orfici, è anche uno di quelli non contemplati dalla Audisio tra le poesie «interessate dal fenomeno iterativo» (27):

Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, Ia china eburnea

Fronte fulgente o giovine
5

Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:

Ma per il tuo ignoto poema
 

Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,

Regina della melodia:
15

Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero

Io per il tuo divenir taciturno.
20

Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,

Dolce sul mio dolore,
25

Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E I'immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti

E I'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
30

Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E I'immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti

E I'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
30

E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

 

Di seguito cataloghiamo i fenomeni di ripetizione. Partendo da questa registrazione mostreremo inizialmente la vastità dell'intreccio iterativo; riferendosi a questo elenco, si tenterà quindi di offrire un nuovo commento al testo campaniano, tenendo conto della riflessione condotta in precedenza. Per iterazione si intende, ovviamente, ogni tecnica che ripeta o riprenda, all'interno del componimento, certi lessemi o unità sillabiche:

l. Non so se (v.1) - Non so se (v.21) - Non so se (v.24).
2. O sorriso (v.2, o disgiuntivo) - O giovine Suora de la Gioconda (v.5) –
O delle primavere / spente (v.7-8) - O Regina, o Regina adolescente (v.9).
3. O sorriso di lontùnanze (v.2) - Sorriso di un volto (v.26)
4. O Regina, o Regina adolescente (v.9) - Regina de la Melodia (v.15).
5. O delle primavere / spente (v.7-8) O Regina, Regina adolescente (v.9).
6. Ma per il tuo ignoto poema (v.10) - Ma per il vergine capo (v.16).
7. Di voluttà e di dolore (v.11) - Dolce sul mio dolore (v.25).
8. Esangue (v.12) - Sangue (v.13).
9. Io poeta notturno (v.17) - Sorriso di un volto notturno (v.26).
10. Io poeta notturno (v.17) - Io per il tuo dolce mistero (v.18) - Io per il tuo
divenir taciturno (v.19).
11. Io per il tuo dolce mistero (v.18) - Io per il tuo divenir taciturno (v.19).
12 .Dolce mistero (v.19) - Dolce vapore (v.24) - Dolce sul mio dolore (v.25).
13. Segno del suo pallore (v.23) - Dolce vapore (v.24).
14. Le mute fonti dei venti (v.27) - Firmamenti (v.28) - Piangenti (v.29) -
Algenti (v.30) - Correnti (v.31).
15. E l'immobilità (v.28) - E (v.29) - E (v.30) - E (v. 31) - E (v. 32).
16. E l'ombre del lavoro umano (v.30) - Lontane chiare ombre correnti (v.31).
17 . E ancora (v.31) – E ancora (v.32).
18. Ti chiamo Ti chiamo (v.32).

Questa poesia, come molte altre dei Canti Orfici, è costituita su di una forte e continua ricorsività lessicale. Si ha, talvolta, l'impressione, che ciascuno dei Canti, pur essendo collegato, grazie a diversi rimandi intertestuali, ai precedenti e ai successivi, sia costruito con un vocabolario proprio e ristretto. Ogni poema che pretenda, espressionisticamente, di costituire una realtà "altra", per natura quindi fragile, deve cercar di fondare la propria validità, non sul richiamo alla concretezza quotidiana, ma sulla ricorsività del linguaggio. La creazione di un mondo nuovo si configura come creazione di linguaggio; solo nella ricorsività del linguaggio può trovare la propria verosimile giustificazione.

L'atmosfera di incertezza si afferma sin dal primo verso (Non so se); il poeta si trova davanti ad un'entità di cui non riesce a riconoscere la natura - viso reale tra roccie, o sorriso impalpabile di lontananze ignote. L'apparizione è tanto sfuggente che, in pochi versi, viene evocata da quattro differenti vocativi  (o giovine Suora della Gioconda); o delle primavere spente Regina, Regina adolescente; Musica fanciulla esangue; Regina de la melodia). Ogni epiteto riprende un tratto del precedente e tenta di aggiungervi qualcosa di nuovo Regina adolescente riprende giovine e vi aggiunge il tratto di regalità; fanciulla riprende adolescente e giovine, ed esangue riprende delle primavere spente, inserendo il tratto di musicalità; Regina riprende, owiamente, Regina, e Melodia riprende musica, sommando i tratti della regalità e della melodia. Grazie anche all'iterazione, di volta in volta, di diversi elementi, si tenta, focalizzando l'attenzione progressivamente su aspetti difformi, di definire in modo sempre più chiaro le fattezze dell'inafferrabile Chimera.
            L'avversativa (Ma per il tuo ignoto poema), divide i primi due vocativi dai successivi due, seguiti, a loro volta, da un'altra avversativa che ripete la struttura della precedente (Ma per il vergine capo). L'iterazione qui si estende alla costruzione di un periodo simmetrico. Potremmo dire che, ogni volta che Campana si avvicina ù cogliere l'intima essenza della sua Chimera, intervenga un ostacolo - I'avversativa, appunto, - a impedire la presa ultima sull'oggetto.

Il primo movimento si conclude con il poeta notturno che veglia le stelle per - con valore finale; sarebbe per trovare - il vergine capo, il dolce mistero,  il divenir taciturno. Siamo davanti ad un altro moto di allontanamento dalla definizione della Chimera; ciò è percepibile grazie alla climax nella disposizione dei tre sostantivi: da una concreta parte del corpo (il capo), si slitta su un piano vago e astratto (il dolce mistero), fino ad arrivare ad un momento di ancora maggior offuscamento, quello dell'attuarsi di una metamorfosi (il divenir taciturno), che conferma la natura incostante della Chimera, sulla quale non sembra esercitabile alcun tipo di possesso. L'allontanamento, comprovato dal passaggio degli aggettivi possessivi dalla seconda alla terza persona, pare definitivo. La seconda parte, infatti, si riapre con l'iniziale dubitativa, ma ci immette in una dimensione diversa da quella iniziale, - in questo senso dobbiamo valutare i rapporti omonimici di cui si è parlato - una dimensione di totale evanescenza: l'ossimorica fiamma pallida non è che segno del suo pallore. Il terzo non so se continua questo percorso di smaterializzazione (fu un dolce vapore). La poesia potrebbe ora concludersi in una struttura perfettamente anulare: vengono ripresi, infatti, i termini del consueto dualismo campaniano (28) (dolce sul mio dolore); I'aggettivo notturno è stato metonimicamente attribuito alla chimera, esprimendo un'affettuosa comunione tra lei e il poeta a cui in precedenza it termine era stato riferito; con la tecnica della Ringcomposition si recupera il sorriso iniziale, un po' meno lontano e ignoto, ma sempre indefinito e, forse piacevolmente, oscuro.

Tuttavia la composizione non si chiude; comincia invece una terza parte, nella quale l'io lirico, non pago della effimera visione, vuole tornare a guardare: vuole raggiungere la Chimera per fissarne e trattenerne l’immagine. In questa terza parte la ripetizione torna con maggiore insistenza. Il poeta cerca di ritrovare la sua apparizione là dove la prima volta era apparsa: tra le roccie (bianche rocce) e nei pelaghi del cielo (immobilità dei firmamenti). L'apparizione, però, non si ripresenta, e ciò riempie di tristezza il poeta e, ancora per metonimia, i luoghi che lo circondano (i gonfii rivi che vanno piangenti). Dopo aver percepito la presenza della Chimera, allontanarsi e diventata taciturna non sarà sufficiente cercarla negli antichi, solidi luoghi del paesaggio, deputati alle sue prime epifanie, ma in qualcosa che partecipi della natura fatua, inconsistente, che in lei si era scoperta. Si guarda, quindi, all'ombre del lavoro umano, ma ciò non basta ancora, perché queste ombre sono fatte piuttosto detla materia dell'immobilità dei firmamenti, che del divenir della Chimera. La Chimera, ch'era apparsa così viva e impalpabile, si è allontanata perché il poeta ha cercato di confinarne l'immagine in uno schema nitido e circoscritto; ma la Chimera vive soltanto finché è impossibile circoscriverla e definirla. Ecco lo scarto tra il poeta notturno che contempta le stelle vivide e quello che guarda all'immobilità dei firmamenti. Così, l'inconsistenza, peculiarità estranea alle rocce non alle mute fonti dei venti, le quali essendo però mute non riescono a destare l'attenzione del poeta -,  è recuperata grazie al termine ombra; ma all'ombra del lavoro umano manca ancora la proprietà della mutevolezza continua. Solamente nelle tenere chiare ombre correnti che si rincorrono per teneri cieli, si può percepire, di nuovo, l'autenticità dell'apparizione, che resterà, tuttavia, ineluttabilmente muta - è il poeta, infatti, a chiamarla.

Nella Chimera ci pare, in definitiva, di poter individuare due spinte opposte, ma co-implicantisi: la prima è quella della «poesia in fuga», secondo la celebre definizione montaliana (29); ma c'è anche un bisogno, tutto umano, di fermare questa fuga, di tracciare dei confini entro i quali trattenere stabilmente la poesia. L'iterazione si fa carico di entrambe queste necessità. Alcune ripetizioni esprimono la fuga, lo svanire continuo della Chimera (non so se; ti chiamo ti chiamo), altre tentano, al contrario, di arginarne la dispersione (i vocativi; le ripetizione di E). La spinta verso la fuga infine prevale, ma non senza conflitto. Pasolini rimproverò alla poesia di Campana, di riempirci di aspettative, per poi deluderci sempre (30); forse l'autore ebbe in questo caso paura di scrutare a fondo la propria Chimera. Egli temeva che fissando lucidamente le forme della propria ispirazione, essa gli sarebbe sfuggita definitivamente. Immaginava che, nell'afferrarla compitamente avrebbe ucciso quella Chimera nell’atto stesso di raggiungerla.

Compiuto questo breve sondaggio testuale sarà il caso di ricapitolare il percorso svolto sin qui: l'iterazione è un principio di organizzazione dei Canti Orfici, una regola stilistica ricorrente, la cui regolarità sta proprio nel non ritornare mai uguale a sé stessa (31). Ogni ripetizione avrà dunque una precisa funzione nel testo, non determinabile a priori, secondo l'unica funzione che si attribuisce, generalmente, all'iterazione negli Orfici. Siamo d'accordo con Audisio, quando scrive che in Piazza Sarzano l'iterazione è «il modo campaniano di surrogare l'onomatopea (...) palazzeschiana»»; lo siamo molto meno quando leggiamo che gli altri esempi proposti - e di riflesso tutte le altre iterazioni «contigue»» si allineano «a comun denominatore»» al precedente. Conseguentemente si afferma che l'iterazione sia generalmente un fenomeno anche semantico, in quanto, oltre a produrre musicalità, produce senso.

Per corroborare tale ipotesi si è utilizzato l'esempio dell'iterazione di fatuo, la quale non è inserita in una rete di richiami fonici, bensì crea un icastico ossimoro tra il fenomeno della ripetizione e l'inconsistenza del significato del termine iterato.

Sono stati quindi messi in evidenza altri casi in cui questa medesima opposizione di senso si riproduce. Se La chimera mancasse dei moduli di cui sopra si è detto, il senso ne sarebbe notevolmente ridotto; lo stesso accadrebbe se si credesse che le ripetizioni non aggiungano semanticità, ma soltanto musicalità. Agosti scrive, in apertura al volume citato che «il verso si distingue dalla prosa perché tutti gli elementi che lo compongono concorrono all'effetto complessivo»: è questa la prospettiva che ci sentiamo di condividere.

Infine, abbiamo ipotizzato che alcune iterazioni, nonché «a-semantiche», non abbiano neppure valore «temporale» - ossia non rimandino all'immissione della durata nella puntualità»», né, viceversa, alla «statizzazione del divenire» bensì, si potrebbe dire, «spaziale»». Tali iterazioni potranno manifestare una volontà di fuga, di evasione in una dimensione "altra" - il sogno, il ricordo, I'evocazione di un'entità astratta -  ma anche essere un tentativo di delimitarne i confini, di ridurre le forme confuse entro strutture circoscrivibili, in un rapporto rispecchiante, Per così dire, quello che intercorre tra mappa e territorio. Con questo non si vuole dire che tutte le iterazioni siano di questo tipo. Esistono iterazioni «a-semantiche»:

una fonte sotto una cupoletta getta acqua acqua ed acqua senza fretta,
nella vetta con il busto di un savio imperatore: acqua acqua, acqua getta
senza fretta, con in vetta il busto cieco di un savio imperatore romano
(Piazza Sarzano)

E «temporali»:

Tornava a rivivere sul panorama scheletrico del mondo (..,) Sorgeva sul
panorama scheletrico del mondo. (...) C'erano dei panorami
scheletrici di città.(...) Davanti al panorama scheletrico del mondo.
(Notte)

Ma, come si è cercato di mostrare nell'esperimento su La chìmera, esistono anche iterazioni «spaziali». Potremmo a questo punto ritornare ad un interrogativo posto in precedenza, quello riguardante l'affermazione del poema in prosa, verso la fine dell’Ottocento. La nostra risposta, al contrario di quella che si potrebbe dare seguendo l'ipotesi di Jakobson, non può riguardare il fenomeno nella sua globalità. Forse il poème en prose negli Orfici non si configura come una semplice eredità del suggestivo patrimonio simbolista francese, ma, affiancandosi alle poesie «verticali", assicura la partecipazione, anche nell'organizzazione del libro, di una duplice spinta. Da una parte è ravvisabile la «poesia in fuga»», che esonda dalla misura del verso per confluire in una prosa ritmica; dall'altra si mantiene, nel tentativo spaziale di immobilizzare le forme, la struttura
della poesia. Anche in questo caso il primo movimento prevale - anche il verso, infatti, supera spesso le tradizionali misure - ma senza annientare il secondo.

Osservati da questo nuovo punto di vista, molti altri testi dei Canti Orfici, cominciando dagli altri Notturni, si potrebbero, forse, rileggere con qualche arricchimento di senso.

 

Note

1 Un importante repertorio bibliografico si trova in A. CORSARO – M.VERDENELLI, Bibliografia campaniana (1914-1985), Ravenna, Longo, 1985. Per una panoramica più limitata, ma più recente, si veda M. A. GRIGNANI, Momenti della ricezione «di Campana, «Allegoria»», XXVI, 1997, pp. 5-16.torna su
2 Si può rintracciare il primo segnale di svolta in C. GALIMBERTI, Dino Campana, Milano, Mursia, 1967, pp. 15 ss.torna su
3 F. AUDISIO, Sul ritmo di Campana, «Paradigma», IV, 1985 , p.274.torna su
4 Si vedano almeno a tale proposito F. BANDINI, Note sulla lingua poetica di Dino Campana, in Dino Campana alla fine del secolo, a cura di A. R. Gentilini, Bologna, Mulino, 1999, pp.39-50; A. BERTONI, Appunti sul metro degli Orfci, ivi, pp. 12l-134; P. GIOVANNETTI, Per una lettura di Genova. Su Metrica e sintassi di Dino Campana, «Per leggere», I, 2001, pp. 29-54.
Tragli studi precedenti all'articolo della Audisio si segnalano N. BONIFAZI, La sintassi e il verso di Campana, Roma, Ateneo, 1964, pp. 219-80 e V. COLETTI, Momenti del linguaggio poetico novecentesco, Genova, Il Melangolo, 1978.torna su
5 G. CONTINI, Dino Campana, in ID Letteratura dell'Italia unita 1861-1968, Firenze, Sansoni, 1968, p. 713.torna su
6 G. CONTINI, Dino Campana (1937), in Esercizi di lettura, Torino, Einaudi, 1982, pp. 16-24. C. BO, Dell'infrenabile notte (1937), poi in Otto studi, Firenze, Vallecchi, 1939, pp. 105-125.
Fu Montale il primo a tentare la mediazione tra le due correnti, in E. MONTALE, Sulla poesia di Campana ne «L'Italia che scrive», a. XXV, n. 9-10, Roma, settembre-ottobre 1942, pp. 152-154, ora in Sulla poesia, Milano, Mondadori 1976, pp. 248-259.torna su
7 I. LI VIGNI, Orfismo e poesia in Dino Campana, Genovar ll Melangolo, 1983, pp. 10 ss.torna su
8 La cultura italiana del primo Novecento era fortemente influenzata da questi autori. D'Annunzio era stato il primo intellettuale ad introdurre in Italia, pur parzialmente, il pensiero di Nietzsche e, inoltre, proprio qualche anno prima della stampa dei Canti Orfici, Soffici aveva presentato all’Italia e al resto dell'Europa non francese l'opera poetica di Rimbaud, che Campana aveva probabilmente già letto in francese.torna su
9 Il primo a riconoscere gli spunti carducciani fu De Robertis. Cfr. G. DE ROBERTIS, ne «La Voce», 30 dicembre 1914, pp. 138-139. Fu poi Contini a descrivere Campana come l'ultimo poeta di tradizione carducciana. Per I'associazione di Campana a D'Annunzio si vedano BONIFAZI, Dino Campana, pp. 242 ss. e GALIMBERTI, Dino Campana, cit., il quale riscontra una vicinanza di Campana anche al poeta dannunziano Angelo Conti. Per quanto riguarda il legame a Pascoli si veda F. NASSI, Il canto della tenebra: una nota su Pascoli e Campana, in «Rivista Pascoliana» XIII, 2001, pp. ll9-128 . La vicinanza ai crepuscolari appare particolarmente evidente in una poesia come L'invetriata.torna su
10 P. BALDAN, Novecento in controcanto, Ravenna, Essegi 1990, p.77.torna su
11 P. BIGONGIARI, La congiuntura Carducci-Campuna, in lD., Poesia italiana del Novecento, Firenze, Vallecchi l965, pp. 39-40.torna su
12 GALIMBERTI, op. cit., p. 96.torna su
13 M. LUZI, Campana al di qua e al di là dell'elegia, in ID., Vicissitudine e forma, Milano, Rizzoli, 1974, pp. 161- 162.torna su
14 G. BARBERI SQUAROTTI, L’insofferenza per Campana, in lD., Gli inferi e il labirinto, Bologna, Cappelli, 197 4, pp. 161-178.torna su
15 AUDISIO, op. cit., p. 281.torna su
16 AUDISIO, op. cit., p. 285.torna su
17 Per una analisi sull'accrescimento del processo iterativo dai Quaderni agli Orfici si veda N.BONIFAZI, Dino Campana, cit., p.247.torna su
18 AUDISIO, op. cit., p. 286.torna su
19 R. JAKOBSON, Linguistica e poetica (1963) in ID., Saggi di linguistica generale a cura di L. HEILMANN, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 192.torna su
20 JAKOBSON, op. cit., p. 193.torna su
21 Per un'introduzione al problema si veda G. BOTTIROLI, Che cos'è la teoria della
letteratura?, Torino, Einaudi, 2006, pp. II 1-1 18.torna su
22 A. RIMBAUD, Illuminations in ID., (Euvres, édition de S. BERNARD et A. GUYAUX, Paris, Garnier, 1981). Alla fine di ciascuna citazione si indica tra parentesi il titolo del poemetto e la pagina dell'edizione di riferimento. Il corsivo, al fine di sottolineare i parallelismi, è nostro. torna su
23 JAK0BSON, op. cit., p. 194.torna su
24 Il riferimento è a J. LACAN' L'instance de la lettre dans l'inconscient ou la roison depuis Freud, in ID., Écrits, Paris, Seuil, 1966, pp. 493-530. Lacan si rifaceva a sua volta a Jakobson,rifiutandone però la rigidità teorica. Jakohson infatti, distinguendo nella struttura bipolaredel linguaggio un rapporto di similarità, espresso dalla metafora, e un rapporto di contiguità,basato sulla metonimia, arrivava a concludere: «il principio di similarità sta alla base dellapoesia (...), la prosa, invece, procede essenzialmente per rapporti di contiguità. E così lametafora per la poesia e la metonimia per la prosa costituiscono il punto di minor resistenza, equesto spiega come le ricerche sui tropi poetici siano orientate essenzialmente verso la metafora», JAKOBSON' Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia (1956), in ID., Saggi di linguistica generale, cit., p. 45. Il saggio di Lacan, scritto poco dopo la prima pubblicazione di questo testo di Jakobson, pur riprendendo la distinzione essenziale tra rapporti di contiguità e rapporti di similarità, non fa neppure cenno alla netta separazione tra prosa e poesia su cui invece Jakobson insiste a più riprese.torna su
25 S. AGOSTI, II testo poetico, Milano, Rizzoli, 1972, pag. 52 ss.torna su
26 M. ELIADE, Il mito dell'Eterno Ritorno, Torino, Borla 1968, qui ripreso da LI VIGNI, cit. p.77.torna su
27 AUDISIO, op. cit., p.285. Per altre analisi de La Chimera si vedano N.BONIFAZI in Dino Campana, cit., pp. 172-173 e pp.247-50, e S. RAMAT, Qualche nota per “La Chimera, in Dino Campana alla fine del secolo, cit., pp.21-38. Il testo è stato poi ripubblicato in RAMAT, I passi della poesia. Note e saggi di un secolo finito,  Novara lnterlinear 2002, pp. 15-28.torna su
28  Questo dualismo è tratteggiato con particolare chiarezza nel poemetto Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Etchegarray).torna su
29 MONTALE, op. cit., p.252.torna su
30 P. P PASOLINI, Campana e Pound in ID., Descrizioni di descrizioni, a cura di G.CHIARCOSSI, Torino, Einaudi, 1979, pp. 235-240.torna su
31 Cfr. G. BOTTIROLI, Teoria dello stile, Firenze , La Nuova Italia, 1997 pp. 124-l2B .In quel caso si parla di regole «strategiche», anziché «stilistiche», termine che, tuttavia, ci è parso più consono per il lavoro intrapreso.torna su